È lui: si muove come un pipistrello, ha lo sguardo vitreo che buca il mondo, il viso scavato in bianco e nero di una qualche Londra del sogno, la fronte alta e pallida come una candela. Ma è soprattutto la voce, nel nero dei vestiti aderenti e nella sciarpa rossa rossa – è la voce ad essere proprio lei, 40 anni dopo: fredda e incendiaria. A toccarti la corda più spessa mentre ti perdi in suoni lontani nell’ultima fila di un palazzetto non gremito. Fuori le barche, niente coda: il bello dei concerti ad Atene. Qualcuno si è fatto in prima fila e di corsa e sgomitando lo portano indietro. Ha perso i sensi, e davanti c’è sicuramente qualche altro cimelio che conosco. A Praga, Roma, Milano o Berlino. Uno di quelli a cui gira di svegliarsi a mezzanotte e poi subito cadere.
Peter Murphy è britannico, fantasmagorico, magico, qualcosa di unico, che così unico te l’eri dimenticato, anche perché all’altro concerto, qualche anno fa che si era a Milano, eri distratta sovrappensiero. Ma lui è ancora qui, sa ancora di essere Peter Murphy, sa ancora essere Peter Murphy e vivere e accendersi nella poesia che canta. Come un attore grotowskiano, un principe costante. Immortale. Perché lui ci crede, Peter, ed è questo a fare la differenza, a fare della voce un’arma. Lì stanno la magia, il carisma, l’immortalità, il brivido dell’immortalità. Splendido vampiro di ricordi che nascono come cosa nuova a ogni incontro. Vocazione che invoca ed evoca e scalda, prima di Natale, in quel 14 dicembre del 2018 – la casa addobbata al ritorno.
ottimo, fin dai tempi dei Bauhaus
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Tra più intensi di sempre…
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